mercoledì 22 agosto 2007

Isaia 7,14 nel Magistero di Giovanni Paolo II

Riporto il discorso tenuto da Giovanni Paolo II nell'udienza generale del 31 gennaio 1996. Con il titolo di Annuncio della maternità messianica, viene studiato il celebre passo di Isaia 7,14. Il testo completo si può trovare facendo click sul sito vaticano, che conserva il copyright.

1. Trattando della figura di Maria nell’Antico Testamento, il Concilio (Lumen Gentium, 55) fa riferimento al noto testo di Isaia, che ha attirato in maniera particolare l’attenzione dei primi cristiani: "Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele" (Is 7,14).
Nel contesto dell’annuncio dell’angelo che invita Giuseppe a prendere con sé Maria, sua sposa, "perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo", Matteo attribuisce un significato cristologico e mariano all’oracolo. Infatti aggiunge: "Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi" (Mt 1,22-23).
2. Tale profezia nel testo ebraico non annuncia esplicitamente la nascita verginale dell’Emmanuele: il vocabolo usato (almah), infatti, significa semplicemente "una giovane donna", non necessariamente una vergine. Inoltre, è noto che la tradizione giudaica non proponeva l’ideale della verginità perpetua, né aveva mai espresso l’idea di una maternità verginale.
Nella traduzione greca, invece, il vocabolo ebraico fu reso col termine "parthenos", "vergine". In questo fatto, che potrebbe apparire semplicemente una particolarità di traduzione, dobbiamo riconoscere un misterioso orientamento dato dallo Spirito Santo alle parole di Isaia, per preparare la comprensione della nascita straordinaria del Messia. La traduzione col termine "vergine" si spiega in base al fatto che il testo di Isaia prepara con grande solennità l’annuncio del concepimento e lo presenta come un segno divino (Is 7,10-14), suscitando l’attesa di un concepimento straordinario. Orbene, che una giovane donna concepisca un figlio dopo essersi unita al marito non costituisce un fatto straordinario. D’altra parte, l’oracolo non accenna per niente al marito. Una simile formulazione suggeriva quindi l’interpretazione data poi nella versione greca.
3. Nel contesto originale, l’oracolo di Isaia 7, 14 costituiva la risposta divina a una mancanza di fede del re Achaz, il quale, dinanzi alla minaccia di una invasione degli eserciti dei re vicini, cercava la salvezza sua e del suo regno nella protezione dell’Assiria. Nel consigliargli di riporre la fiducia soltanto in Dio, rinunciando al temibile intervento assiro, il profeta Isaia lo invita da parte del Signore a un atto di fede nella potenza divina: "Chiedi un segno dal Signore tuo Dio...". Al rifiuto del re, che preferisce cercare la salvezza nei soccorsi umani, il profeta pronuncia il celebre oracolo: "Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele" (Is 7,13-14).
L’annuncio del segno dell’Emmanuele, "Dio-con-noi", implica la promessa della presenza divina nella storia che troverà pienezza di significato nel mistero dell’Incarnazione del Verbo.
4. Nell’annuncio della nascita prodigiosa dell’Emmanuele, l’indicazione della donna che concepisce e partorisce mostra una certa intenzione di associare la madre al destino del figlio un principe destinato a stabilire un regno ideale, il regno "messianico" e fa intravedere un disegno divino particolare, che pone in evidenza il ruolo della donna.
Il segno, infatti, non è soltanto il bambino, ma il concepimento straordinario, rivelato poi nel parto stesso, evento pieno di speranza, che sottolinea il ruolo centrale della madre.
L’oracolo dell’Emmanuele va compreso, inoltre, nella prospettiva aperta dalla promessa rivolta a David, promessa che si legge nel secondo Libro di Samuele. Qui il profeta Natan promette al re il favore divino per il suo discendente: "Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio" (2Sam 7,13-14).
Nei confronti della stirpe davidica, Dio vuole assumere un ruolo paterno, che manifesterà il suo pieno ed autentico significato nel Nuovo Testamento, con l’incarnazione del Figlio di Dio nella famiglia di Davide (cf. Rm 1,3).
5. Lo stesso profeta Isaia, in un altro testo molto conosciuto, ribadisce il carattere eccezionale della nascita dell’Emmanuele. Ecco le sue parole: "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace" (9, 5). Il profeta esprime così, nella serie di nomi dati al bambino, le qualità del suo compito regale: sapienza, potenza, benevolenza paterna, azione pacificatrice.
La madre qui non è più indicata, ma l’esaltazione del figlio, che porta al popolo tutto ciò che può essere sperato nel regno messianico, si riversa anche sulla donna che lo ha concepito e partorito.
6. Anche un famoso oracolo di Michea allude alla nascita dell’Emmanuele. Dice il profeta: "E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà..." (Mi 5,1-2). In queste parole risuona l’attesa di un parto ricolmo di speranza messianica, nel quale si evidenzia, ancora una volta, il ruolo della madre, esplicitamente ricordata e nobilitata dal mirabile evento che reca gioia e salvezza.
7. La maternità verginale di Maria è stata preparata in un modo più generale dal favore concesso da Dio agli umili e ai poveri (cf. Lumen Gentium, 55).
Questi, ponendo ogni loro fiducia nel Signore, anticipano col loro atteggiamento il significato profondo della verginità di Maria, che, rinunciando alla ricchezza della maternità umana, ha atteso da Dio tutta la fecondità della propria vita.
L’Antico Testamento non contiene, dunque, un annuncio formale della maternità verginale, rivelata pienamente solo dal Nuovo Testamento. Tuttavia l’oracolo di Isaia (Is 7,14) prepara la rivelazione di questo mistero ed è stato precisato in questo senso nella traduzione greca dell’Antico Testamento. Citando l’oracolo così tradotto, il Vangelo di Matteo ne proclama il perfetto adempimento per mezzo del concepimento di Gesù nel grembo verginale di Maria.

giovedì 9 agosto 2007

la nozione di sacro e canonico secondo il Concilio Vaticano I

Si studierà qui la nozione di libro sacro e canonico secondo la fede della Chiesa. Questa viene espressa dal Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica de fide catholica Dei Filius, terza sessione del 24/4/1870. Il tema è trattato nel capitolo II.
Rilevo che le due costituzioni promulgate dal Concilio Vaticano I hanno valore dogmatico nel corpo stesso del testo, a differenza dei documenti del Concilio di Trento, in cui il carattere dogmatico compete ai canoni, piuttosto che non al testo precedente.
Così dice la costituzione Dei Filius (evidenzio in grassetto le novità rispetto al Concilio di Trento):
“Haec porro supernaturalis revelatio, secundum universalis Ecclesiae fidem, a sancta Tridentina Synodo declaratam, continetur in libris scriptis et sine scripto traditionibus, quae ipsius Christi ore ab Apostolis acceptae, aut ipsis Apostolis Spiritu Sancto dictante quasi per manus traditae, ad nos usque pervenerunt. Qui quidem veteris et novi Testamenti libri integri cum omnibus suis partibus, prout in eiusdem Concilii decreto recensentur, et in veteri vulgata latina editione habentur, pro sacris et canonicis suscipiendi sunt. Eos vero Ecclesia pro sacris et canonicis habet, non ideo quod sola humana industria concinnati, sua deinde auctoritate sint approbati; nec ideo dumtaxtat quod revelationem sine errore contineant; sed propterea, quod Spiritu Sancto inspirante conscripti Deum habent auctorem, atque ut tales ipsi Ecclesiae traditi sunt.

A semplice lettura si nota che il Vaticano I riprende le parole di Trento, citate e commentate nel post precedente. La novità è che la Dei Filius spiega in che senso la Chiesa accetta i libri dell'AT e del NT come sacri e canonici.
Per farlo, illustra dapprima alcune spiegazioni teologiche insufficienti, dibattute nei secoli intercorsi dopo il Concilio di Trento, e specifica che esse non rendono ragione di ciò che intende la Chiesa quando afferma che i libri dell’AT e del NT sono sacri e canonici:
a) I libri sacri non sono tali in quanto, dopo essere stati composti da uomini, sono stati poi approvati dalla Chiesa (teoria della approvazione susseguente). Neppure se la Chiesa impegna la propria infallibilità può rendere sacro un libro che non lo è. Occorre infatti non confondere il fatto che uno scritto sia vero (e che la Chiesa lo dichiari tale infallibilmente) con il fatto che sia Parola di Dio.
Le dichiarazioni solenni dei Concili sono vere, in quanto dichiarate infallibilmente tali dalla Chiesa, il cui Magistero è assistito dallo Spirito Santo. L’assistenza dello Spirito Santo comporta il fatto che i documenti del Magistero sono sempre autorevoli. Il Magistero solenne, poi, è infallibile. Ma anche allora ne discende soltanto che ciò che insegna è vero, non che è Parola di Dio.
L’ispirazione arriva più lontano: i testi della Bibbia non sono soltanto veri, sono anche parola di Dio. Il Magistero non fa altro che riconoscere (infallibilmente) qualcosa che già prima Dio aveva donato.
b) I libri sacri non sono tali perché contengono senza errore la Rivelazione. Ogni formula dogmatica, a partire dal Simbolo niceno-costantinopolitano, contiene la Rivelazione senza errore, ma ciò no basta a far sì che diventi Parola di Dio. Altrimenti aggiungeremmo alla fine del Nuovo Testamento il Simobolo delle fede e i dogmi successivamente definiti. E invece non lo facciamo.

Positivamente, il VaticanoI insegna che i libri sacri “Spiritu Santo inspirante conscripti, Deum habent auctorem, atque ut tales ipsi Ecclesiae traditi sunt”.
Vorrei sutdiare la struttura dell’affermazione conciliare: i libri sacri (A) e canonici (B) sono tali perché ispirati dallo Spirito Santo (A') e ut tales traditi (B'): essa contiene dunque insieme la definizione di sacro e di canonico, che possiamo ora esplicitare.
a) libri sacri: il loro autore principale è Dio. Questo va creduto, non può essere visto, e per questo lo dice il Concilio. Il Concilio non dice esplicitamente che hanno anche un autore umano, perché questo dovrebbero essere scontato. Ma ci si potrebbe domandare: la Dei Filius vuol forse dire che l'autore umano non è vero autore? risponde il Concilio Vaticano II, con la Costituzione dogmatica Dei Verbum (Vaticano II): gli autori umani sono veri auctores. Essi ricevono l’ispirazione dallo Spirito Santo e sotto la sua influenza scrivono questi libri. In modo che il libro intero va attribuito a Dio come autore e all’uomo come “autore sacro”.
b) Libri canonici: come sacri sono stati affidati alla Chiesa. Si aggiunge dunque un’altra nozione: l’affidamento dei libri sacri alla Chiesam che riceve in essi un dono di Dio. La Chiesa riconosce i libri sacri in forza del sensus fidei del popolo di Dio, il quale è infallibile nel credere. Il Magistero, poi, è infallibile nell’insegnarlo. E’ quanto è successo: il popolo ha tramandato i libri, i Pastori hanno specificato quali essi siano, allorché sono sorti dubbi.

Già nel IV e V secolo ci sono concili provinciali (africani) che contengono liste di libri sacri e canonici. Poi i Concili Ecumenici propongono liste intere. Firenze (nella Bolla di unione con i copti “Cantate Domino”, del 4 febbraio 1442), dove peraltro non s'intende definire un domga, e Trento, dove invece è definita dogmaticamente la lista dei libri sacri e canonici. Il Vaticano I aggiunge la definizione relativa all’ispirazione.

Dunque, quanto alla realtà, prima esiste il libro sacro e poi è ricevuto dalla Chiesa come canonico. Nell’ordine della nostra conoscenza, invece, noi sappiamo in primo luogo quali sono i libri accolti dalla Chiesa e attraverso la lista dei libri canonici conosciamo con certezza quali sono i libri sacri. La nostra conoscenza procede a posteriori: dagli effetti, a noi più noti benché posteriori nella realtà, risaliamo alla causa, a noi meno nota benché precedente nella realtà.

La conoscenza della ispirazione dei libri parte dunque dalla Tradizione (l’uso nella liturgia, nella vita spirituale, nella catechesi, nell’insegnamento della Chiesa). Non parte dalla conoscenza dei nomi e dell'indole degli autori dei libri. Sia perché vi sono santi e profeti che non scrivono libri, sia perché alcuni agiografi non sono profeti, dato che come loro stessi affermano raccontavano piuttosto interrogando testimoni. Per esempio san Luca riferisce che per scrivere sui fatti e i detti di Gesù ha con diligenza intervistato i testimoni oculari e i servitori della parola. Quando poi scrive sulla base di quel materiale gode del carisma dell’ispirazione. Il suo giudizio in questo è guidato da Dio: il suo Vangelo è parola di Dio. Di alcuni autori dell’AT non conosciamo neppure il nome. Molti libri inoltre attraversano diverse fasi editoriali (seconda e terza redazione di Isaia, le parti più recenti del Pentateuco). Eppure di tutti questi libri sappiamo con certezza che sono sacri e canonici, chiunque fosse l’autore ispirato. L’affermazione della ispirazione e della canonicità di un libro non parte da una ricerca storico-archeologica, ma dalla tradizione.
Se ci sono dei dubbi sull’autenticità paolina di una lettera o di una parte di un libro, ci troviamo di fronte ad un problema letterario, che può essere anche importante, giacché ci potrà aiutare per l’interpretazione di quel brano o di quel libro, ma non ci dice nulla sulla canonicità.
Ecco perché si può fare esegesi all’interno della fede o senza metterla a repentaglio: gli esegeti non ci tolgono il terreno sotto i piedi a colpi di critica storico letteraria.

lunedì 6 agosto 2007

quali sono i libri sacri e canonici?

Si è espresso in proposito il Concilio di Trento, nella sessione IV, dell’8 aprile 1546. Come in ogni sessione del Concilio tridentino, occorre distinguere il primo decreto, di carattere dogmatico (de fide) dal secondo decreto, di carattere disciplinare (de reformatione). Il primo decreto ha importanza perenne, giccché definisce dogmaticamente il Canone delle Scritture. Il secondo è riformabile.

Il 1° decreto è intitolato “Recipiuntur libri sacri et traditiones apostolorum”.
Dopo aver riportato l’elenco dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, il Concilio dice:
Si quis autem libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, prout in Ecclesia Catholica legi consueverunt et in veteri vulgata latina editione habentur, pro sacris et canonicis non susceperit, et traditiones praedictas sciens et prudens contempserit: anathema sit .
Il criterio per discernere i libri sacri è il fatto di essere contenuti nell'antica edizione vulgata latina, mediante la quale “in Ecclesia Catholica legi consueverunt”.
La Vulgata latina è una raccolta di libri che al tempo del Concilio di Trento ormai da 1000 anni la Chiesa Cattolica stava leggendo come parola di Dio. Questo è il criterio seguito dai Padri conciliari per definire quali libri sono canonici: la tradizione viva della Chiesa. Per mille anni i libri contenuti nella Vulgata sono stati letti nella Chiesa come parola di Dio, che ha alimentato la liturgia, la preghiera, la riflessione teologica.
Nel secondo decreto (de reformatione) si prescrive invece di usare nella liturgia la Vulgata e non gli originali o altre traduzioni; si afferma inoltre che nelle discussioni teologiche la citazione della Vulgata avrà valore di prova. A differenza del primo decreto il secondo parla di traduzione in quanto tale. giacché si tratta di un decreto disciplinare e non dogmatico, non si può dire che la Vulgata in quanto traduzione non è migliorabile. Tant'è vero che in seguito la Chiesa cattolica ha riformato il secondo decreto, quando Papa Giovanni Paolo II ha pubblicato la Nova Vulgata, nel 1979 (II edizione nel 1985). La Nova Vulgata riforma e corregge la Vulgata in quanto traduzione. Di conseguenza gli esegeti possono liberamente criticare la traduzione che di un determinato passo si trova nella Vulgata. Né esiste un'unica traduzione possibile, né tantomeno la traduzione della Vulgata è l'unica possibile.

Torniamo al decreto dogmatico, dove si trova il riferimento alla Vulgata come “luogo” dove rinvenire i libri sacri e le loro parti. Nella parte che contiene la definizione di fede il decreto è irreformabile.

Ci soffermiamo a commentare brevemente la frase con la quale il Cocilio di Trento accoglie i libri dell’Antico e Nuovo Testamento, “libri integri cum omnibus suis partibus”, come sono contenuti nell'antica edizione Vulgata latina.

Che cosa intendono i Padri conciliari per libri integri? Sembra che facciano riferimento alla trasmissione del testo. Per esempio: nel Vangelo di Luca si riferisce che Gesù, nell’orto degli ulivi, sudò sangue. Non tutti i manoscritti riportano questa frase (i più antichi la omettono), ma una tradizione l’ha tramandata ed essa è presente nella Vulgata. Se perciò la critica testuale arrivasse alla conclusione che il sdore di sangue non appaartiene all'archetipo del testo, non per questo il fedele cattolico dovrà negare il carattere sacro del versetto espunto.
Un caso più importante è quello di Gv 7,53-8,11, che contiene la celebre pericope dell’adultera. Orbene, essa manca nei manoscritti più antichi: compare a partire dal Codex Beza e s'impone nella trdizione manoscrita successiva. Vi sono anche importanti motivi interni (specialmente i termini non giovannei che vi ricorrono) che inducono gli studiosi a escludere che la pericope facesse parte dell'archetipo di Giovanni. Non per questo la percipoe è da considerarsi non canonica. Anzi, i Padri di Trento la menzionarono espressamente nelle loro discussioni, e con l'espressione “libri integri” intesero affermarne la canonicità. Il fedele cattolico è libero di accogliere le conclusioni della critica testuale, che espunge la pericope dalla ricostruzione dell'archetipo di Giovanni; tuttavia, la pericope in sé conserva tutto il suo valore di Sacra Scrittura. Si tratta di un testo sacro a cnonico, scritto da autore sconosciuto, conservato nella Chiesa e, a partire dal V secolo, inserito nel Vangelo secondo Giovanni. Quando nel Medioevo vengono numerati i capitoli, la pericope resta al confine fra il 7° e l'8° capitolo di Giovanni.
Un altro caso, anch'esso espressamente sollevato nelle discussioni conciliari, è quello di Marco 16,9-20, la cosiddetta “conclusione lunga” del Vangelo. Essa manca nei manoscritti più antichi, che terminavano in Marco 16,8, con parole che inteprellano fortemente il lettore inviandolo a prendere posizione rispetto alla risurrezione di Gesù (non dissero niente a nessuno, perché avevano paura). La sintassi di Marco 16,9-20 è diversa da quella del resto del Vangelo. Inoltre l'autore mostra di conoscere i racconti pasquali di Matteo, Luca e Giovanni. Sembra logico dedurne che la conclusione fu aggiunta da un redattore diverso dall'Evangelista, per offrire ai lettori, insoddisfatti della chiusa originaria, un resoconto armonico delle apparizioni del risorto. Ora, tale valutazione mette forse in discussione il carattere sacro e canonico di Mc 16,9-20? La risposta dei Padri di Trento è negativa. La chiusa del Vangelo è stata letta dalla Chiesa come parola di Dio, e la tradizione della Chiesa è fonte di conoscenza della rivelazione. Facendo due più due, si può concludere che Mc 16,9-20 fu composto da un autore ispirato il cui nome non ci è noto.

Consideriamo ora l'espressione conciliare “cum omnibus suis partibus”. Vi sono nella Bibbia libri di carattere composito. Ad es., Daniele ha 12 capitoli in lingua semitica (in ebraico e in aramaico). Essi sono stati tradotti in greco e sono confluiti nella versione dei LXX. Questa versione raccoglieva anche due libri brevi, la storia di Susanna e il libro che narra la storia di Bel e il Serpente: in entrambi compare Daniele come personaggio. Nei diversi manoscritti dei LXX i due piccoli libri hanno collocazioni differenti. Visto che nella storia di Susanna Daniele è un bambino, in alcuni manoscritti questo libro inizialmente separato si trova prima del libro di Daniele (con i 12 capitoli in lingua semitica), e alla fine è aggiunto invece Bel e il serpente.
San Girolamo, quando ritradusse i profeti dall'ebraico (e, nel caso di Daniele, in parte dall'aramaico), collocò la storia di Susanna e quella Bel in appendice al libro di Daniele. Nel medioevo le due appendici divennero il 13º e 14º capitolo di Daniele.
Alla luce del Concilio di Trento, non possiamo dire che soltanto Dn 1-12 è sacro e canonico; sacri e canonici sono infatti i libri contenuti nella Vulgata, come sono stati letti nella tradizione della Chiesa.

Commentiamo infine il termine usato dal Concilio, quando parla della Vulgata come "edizione". Non se ne parla dunque come traduzione. Il Concilio fa piuttosto riferimento al lavoro editoriale, consitente nella selezione dei libri. Chi ha copiato a mano ha scelto di inserire i quattro Vangeli a noi noti e di lasciare fuori il Vangelo di Tommaso o il Vangelo degli Ebioniti.
Dicevamo che la vulgata come traduzione può essere rivista. Lo hanno fatto Papa Sisto e Papa Clemente (con l’edizione Sisto-Clementina) e l’ha fatto Giovanni Paolo II (portando a compimento quanto iniziato da Paolo VI) con la Neo Vulgata.
E’ importante anche non identificare la Vulgata di cui parla il Concilio di Trento con la Sisto-Clementina. Il decreto dogmatico di Trento parla di "antica edizione Vulgata latina". Ora, nel 1546 la Vulgata Sisto-Clementina non esisteva ancora. Essa è stata preparata in applicazione del II decreto (disciplinare); dapprima venne pubblicato da papa Sisto, che intervenne liberamente sul testo, con correzioni e presunti miglioramenti linguistici, poi da papa Clemente, che eliminò le correzioni apportate dal suo predecessore.
Dell'antica Vulgata latina esistono oggi edizioni critiche scientifiche, che cercano di presentarne l'archetipo, riucostruito mediante la collazione dei manoscritti esistenti . Esse sono la Biblia Sacra Stuttgartensia, a cura di R. Weber, e la Biblia Vulgata della Abbazia di San Benedetto in Urbe (iniziata su incarico di Paolo VI). Purtroppo quest'ultima edizione contiene solo l'Antico Testamento, né è previsto che il lavoro ormai interrotto venga proseguito.

giovedì 2 agosto 2007

who wrote John 21 and John 1-20?

I think that John 21 was not written by the same person that wrote John 1-20.

I find the following reasons:

1. Chapter 20 ends in vv. 30-31 with a fully-fledged conclusion, that points back to the σημεῖα (signs), that can be found in John 2-12. Therefore, unless the contrary is proved, I understand John 20,30-31 as the conclusion of John 1-20 (whether you include the Prologue or not).

2. John 21,24 says the the beloved disciple wrote ταῦτα. It is reasonable to think that ταῦτα refers to what comes before, that is to the Gospel as a whole down to the first conclusion in John 20,30-31.

3. I find six reasons to think that Chapter 21 is not written by the beloved disciple who wrote John 1-20. I list them as follows:

3.1. John 21,24 says that "we know that his witness is true" (οἴδαμεν ὅτι ἀληθὴς αὐτοῦ ἡ μαρτυρία ἐστίν). The verb is in first plural, so that whoever is speaking can be easily distinguished from the beloved disciple, that is referred to in third person: "he".

3.2. If the person speaking were the same as the author of John 1-20, he would be a person who testifies on his own behalf. As John 5,31 says: "If I testify on my own behalf, my testimony cannot be verified" (Ἐὰν ἐγὼ μαρτυρῶ περὶ ἐμαυτοῦ, ἡ μαρτυρία μου οὐκ ἔστιν ἀληθής).

3.3. John 21,20-23 says that Jesus didn't say that the beloved disciple wouldn't die, contrary to the word spread among the brothers. These verses make sense if they were written after the death of the beloved disciple: the author seems worried that some brothers might think that Jesus was wrong. Therefore the beloved disciple didn't wrote these verses.

3.4. The fact that we find a conclusion in John 20,30-31 make it plausible the once the Gospel ended there, and chapter 21 was added subesequently. The fact that the conclusion in 20,30-31 is not modified when chapter 21 is added leads to think that the author of John 21 didn't think he could change what was already written. This doens't happen in John 1-20, whenever the
test is modified. For instance, in chapter 4,2 a correction is inserted within the text. The author of John 21 doesn't take the same liberty.

3.5. Chapter 21 names some disciples that are never named before: that is, the sons of Zebedee. It is striking that they are never named in John 1-20. Whatever the reason, it no longer stands when John 21 was written.

3.6. Chapter 21 uses 174 different words. 27 of them are not existent in John 1-20. For instance, in chapter 6 fish is ὀψάριον, while ἰχθύς is never used. Chapter 21 uses ἰχθύς. It is unlikely that the author of John 21 is the same as the author of John 1-20.

I think that 3.1-2 are the strongest reasons, that give me certainty. I recognise that the following reasons do not provide full evidence. If considered separately, they make it more likely that the author is different. All together, they make a strong case against identity of author.

che cos'è l'uguaglianza con Dio in Fil 2,6-11?

Alcune considerazioni sull’inno di Filippesi 2,5-11.

L'inno culmina nella professione di fede di 2,11, che contiene un’attualizzazione di Is 45,23, non come è nel testo ebraico (e quindi come nella Vulgata), ma come si presenta nell’antica traduzione greca detta dei LXX. Fil 2,11 riecheggia il testo della traduzione greca di Isaia, introducendo alcune modifiche che lo attualizzano.

Is 45,23 LXX dice: ὅτι ἐμοὶ κάμψει πᾶν γόνυ καὶ ἐξομολογήσεται πᾶσα γλῶσσα τῷ θεῷ.

In Isaia è Dio che parla e ogni ginocchio si piega dinanzi a Dio. San Paolo aggiunge “nel nome di Gesù”.

Isaia dice: “ogni lingua confessi Dio”. San Paolo completa: “ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore”.

San Paolo stabilisce così l’identità tra Gesù Cristo e il Signore. Il “Signore” è il nome di Dio che si rivela nella storia: per Paolo, quindi, Dio si rivela in Gesù Cristo; e tuttavia Gesù non prende il posto del Dio dell’AT. La confessione del nome di Gesù avviene “a gloria di Dio Padre”. Per san Paolo l’affermazione della divinità di Cristo non va a dterimento della divinità del Padre.

Si domanda se l'inno sia articolato in due o tre momenti. Per molto tempo si è pensato che si articolasse in tre momenti, che sarebbero: 1) Gesù preesiste presso il Padre in forma divina, 2) Gesù si svuota di sé (ἑαυτὸν ἐκένωσεν) facendosi uomo; 3) Gesù viene esaltato dal Padre.

Osserviamo subito che tale scansione è letterariamente improbabile: come potrebbero le tre parti avere un'estensione così diseguale? La prima comprenderebbe un versetto, la seconda due, la terza tre. Più che di struttura dell'inno, dovremmo allora parlare di mancanza di struttura, giacché non si riscontra nessuna regolarità nell'espressione verbale del pensiero. Ma allora, piuttosto che dire che san Paolo redige un inno sproporzionato, non sarebbe meglio dire che non abbiamo ancora compreso che struttura avesse l'inno?

Ammesso e non concesso che si accolga la divisione in tre stadi, diventerebbe molto difficile capire in che senso Gesù si “svuota”: depone forse la divinità?

Vi sono interpretazioni eterodosse che leggono nell'inno l'idea che Gesù era Dio ed è divenuto mero uomo. Si può farlo in diversi modi: a) affermando che Gesù era Dio solo in apparenza (interpretazione assai forzata di ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων); b) affermando che Gesù era Dio, ma poi rinuncia ad essere uguale a Dio, e da un certo momento in poi non lo è più (teologie della morte di Dio).
L'interpretazione a) è debole perché μορφή in greco indica la sì forma visibile, ma non in quanto apparenza contrapposta alla sostanza; l'interpretazione b) invece è metafisicamente insostenibile: se Gesù è Dio, lo è per sempre; se in un momento dato non lo è, allora non lo è mai stato. Non si può smettere di essere Dio.

Ci sono poi interpretazioni ortodosse, che cercano di salvare la divinità di Gesù. Ma, se vogliono conservare la divisione tripartita dell'inno, si trovano di fronte a difficoltà insolubili, che derivano dal collegare all'incarnazione la rinuncia a essere uguale a Dio. Se l'abbassamento di Gesù consistesse nell'incarnazione, in che modo verrebbe superato con la sua esaltazione? Forse che con l'esaltazione di Gesù cessa l'incarnazione? Non se ne esce.

La soluzione migliore consiste nel riprendere daccapo l'esame dell'inno, per riconoscere che non si articola in tre parti, ma in due.

Dal punto di vista formale, la divisione in due parti di tre versetti ciascuna sembra più armonica. La prima parte consisterebbe nell’umiliazione di Gesù, la seconda nella sua esaltazione. L'innalzamento di Gesù al di sopra di ogni nome conseguirebbe alla risurrezione. Con la risurrezione, Gesù non cessa di essere uomo. Al contrario, ritorna ad essere un uomo vivente. La sua umanità passa dalla morte alla vita. Ne consegue che l’umiliazione non consiste affatto nell’assunzione dell’umanità. In che senso allora Gesù “svuotò se stesso”?

Nel 1974 la CEI traduceva 2,6bc come segue: “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”. La traduzione, ora cambiata nella terza edizione, non era del tutto chiara. In che cosa consiste l'uguaglianza con Dio? Vuol dire forse “il suo essere uguale a Dio”?

Occorre guardare al testo greco, che dice: τὸ εἶναι ἴσα θεῷ (2,6c).

Osserviamo che ἴσα è neutro plurale. Se in greco si volesse dire: “il suo essere uguale, si direbbe ἴσον, impiegando il maschile singolare in un costrutto di accusativo con l'infinito (o ἴσος in un costrutto di nominativo con l'infinito). L'uso si trova già in Saffo: φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν ἔμμεν’ ὤνηρ, ὄττις... = Mi pare che sia uguale agli dèi quell'uomo, che... Qui si usa il maschile singolare ἴσος (al nominativo).

Cosa diversa è l'accusativo neutro plurale ἴσα, che non concorda con un soggetto singolare. Si tratta di una forma avverbiale, che vuol dire “ugualmente”, “in modo uguale”. L'uso si trova già in Omero (Od. 11,484-485). Odisseo incontra l'ombra di Achille morto e gli dice: πρὶν μὲν γάρ σε ζωὸν ἐτίομεν ἶσα θεοῖσιν Ἀργεῖοι (= anche prima, quand'eri vivo, noi Argivi ti onoravamo ugualmente agli dèi). L'espressione ἶσα θεοῖσιν vuol dire “in modo uguale agli dèi”. Riguarda gli onori che gli Argivi tributavano ad Achille da vivo.

San Paolo scrive ἴσα θεῷ, sostituendo il plurale omerico con il singolare, consono con il suo monoteismo. Dicendo “in modo uguale” non si riferisce perciò alla natura divina di Gesù, ma agli onori divini, cioè all'essere trattato come s'addice a Dio. A ciò Gesù rinuncia, assumendo piuttosto la condizione di servo. Non viene onorato come Dio, ma ignorato e addirittura condannato alla morte di croce.

Quindi l'umiliazione non consiste nell’incarnazione, che di fatto non viene raccontata da Paolo, ma nel modo in cui storicamente si svolge la vita di Gesù divenuto uomo (2,7c: ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος), modo che nell'inno viene narrato per sommi capi. L'umiliazione non è l’assunzione della natura umana, ma la condizione storica in cui si svolge la vita umana di Gesù: servo e non signore, passibile e mortale e non gloriosa e immortale.

Si può così spiegare anche in che cosa consista l'esaltazione. L'umanità di Gesù, dopo la risurrezione, viene glorificata. In tutto l’inno Gesù è Dio e uomo, dopo la risurrezione diviene uomo glorificato.

Dal punto di vista teologico, l'unione delle due natura non comporta l'alterazione di nessuna delle due.

Luca 1,1 allude a Giovanni?

Luca 1,1 dice che “molti hanno ordinato un racconto (διήγησιν) degli avvenimenti successi tra di noi”. Alla fine del 2006, sulla mailing list del gruppo di discussione sulla letteratura giovannea, Kym Smith ha ipotizzato che i “molti” possano essere un gruppo di vescovi e che il racconto sia il Vangelo secondo Giovanni. Si spiegherebbe così che Giovanni parli più volte in prima persona plurale: “noi”.

Ho allora espresso il mio scetticismo sulla possibilità che un gruppo di persone possa scrivere un libro:

As for the idea of a group of authors that writes the Gospel, I am skeptic. I don't think that a group of people can write a text. We have no news that this happened at the beginning of C.E. We know of texts that developed orally with the contribution of many authors, but we don't know of texts that were written by several hands at once. When an author wrote, he was alone or he enjoyed the help of a secretary, but no more than that. The author could dictate the text, and the secretary could be granted freedom to add something, as Tertius does in Romans. In this case, Tertius says that he is adding a line of his own. Or Paul sometimes says that he is personally penning a sentence, when he is no longer dictating. The author could also ask his secretary to shape his ideas into a written text. In this case, the literary author is the secretary, who writes in his own words. Cooperation could go no further than that. The bottom line is that no more that one hand could hold the calamus at the same time.

Kym Smith ha risposto:

It may not be a gospel but the very process you deny must have happened with the letter from the Jerusalem Council (Acts 15:22-29).
There is no reason why a group could not have shared thoughts and worked cooperatively on a gospel like happens every day with all manner of books, reports, etc.

Al che ho replicato:

[In Acts 15] we have a letter, written by somebody, possibly under dictation, to reflect the agreement of the Council, that is quoted as a document in the book of the Acts, that is not written by a council.

I don't deny that people can work cooperatively. They can do this in various ways. But in the antiquity this was done orally. Written texts are written by individuals, that can take full advantage of the work of the group.

Today we have wikis, that allow cooperative writing. In the antiquity writing was a very slow process, that lead to a single manuscript. The manuscript then had to be copied, and this is slow, too. Modifications could be done, but other people woulnd't know about them until the modified text was copied and distributed. There was no multiple access to the same text.

Printed texts were a revolution. Digital text are a revolution. We should be careful not to bring our habits back to the time when a book was written and copied by hand.

Al che Kym Smith ha sollevato la questione del prologo di Luca:

An even more appropriate text is Luke 1:1. There the 'many have undertaken to compile a (single) narrative'. The common view of this is that many attempts to write gospels had preceded Luke's but the grammar - and Luke is known for his excellent Greek - only indicates a single narrative. It is my view that the 'many' did cooperate to produce a single narrative - I would not be the first to suggest this.

Il 2 dicembre 2006 ho cercato di confutare tale interpretazioni di Luca 1,1, con un messaggio dal titolo 4G Redactors. Proponevo allora i seguenti argomenti (in lingua inglese).

I would contend that:

1) Luke 1:1 does not say that the narrative is a written narrative
2) even if he did, this cannot be the same narrative as the Gospel of John
1-20.

1) διήγησις is certainly a narrative. And this narrative has been arranged
according to a τάξις, that is, an order that can be recognized.

My point is that a narrative can be arranged in a written form, but also in
an oral form. On its part, a written narrative can be arranged according to
an order that a reader can recognize, or it can be written in such a way
that the reader doesn't perceive a τάξις.

I will refer to a famous fragment by Papias, quoted by Eusebius in his
Ecclesiastical History:

Μάρκος μὲν ἑρμηνευτὴς Πέτρου γενόμενος, ὅσα ἐμνημόνευσεν, ἀκριβῶς ἔγραψεν, οὐ μέντοι τάξει, τὰ ὑπὸ τοῦ Χριστοῦ ἢ λεχθέντα ἢ πραχθέντα. οὔτε γὰρ ἤκουσε τοῦ κυρίου, οὔτε παρηκολούθησεν αὐτῷ, ὕστερον δέ, ὡς ἔφην, Πέτρῳ, ὅς πρὸς τὰς χρείας ἐποιεῖτο τὰς διδασκαλίας, ἀλλ᾿ οὐχ ὥσπερ σύνταξιν τῶν κυριακῶν ποιούμενος λογίων.

Here we have Peter that arranges his teachings according to need, and Mark
that listens to Peter and writes down what he heard from him. Mark writes
οὐ ... τάξει. He does not impress into his narrative an order that is
perceived by Papias.

I am not asking that you agree that Mark reflects the preaching of Peter,
nor that Mark's narrative has no τάξις at all. Rather, my point is that the
Greek τάσσω, when used to speak of a narrative, does not mean "write
down" a narrative, but rather "impress an order" to a narrative. This can be
done orally or in a written form.

The same fragment by Papias shows that Peter 's teaching included accounts
of Jesus' words, but also of his actions (πραχθέντα). An account of actions
is a narrative. Here we have oral narratives by Peter, that are the source
for Mark's written narrative.

Again, I am not asking that such accounts by Peter were available to Mark.
Rather, I am suggesting that our text allows for narrations to be organized
and told even before anything was written.

In other words, we should distinguish between "composition" of a narrative,
that can be either oral or written, and "redaction", which is written.

In my opinion, there is no prove that Luke's ἀνατάξασθαι διήγησιν refers to
written composition. It may as well refer to oral composition. The Greek
allows for that.

Luke 1:3 says that he is going to write (γράψαι) a narrative, not that
"many" wrote narratives. If you contend that "many" wrote, you should prove
that, and ἀνατάξασθαι διήγησιν is no proof.

You seem to agree with that, when you write in the excerpt of your book: "On
every other occasion in the gospel and Acts, apart from two, Luke uses a derivative of γράφω if someone was writing". It appears that Luke uses the verb γράφω when he refers to a written account.

2) Even if Luke 1:1 referred to written accounts (and I disagree with that),
those accounts could not be the fourth Gospel as we know it. John 21:23 says
that the beloved disciple is the one "who bears witness and wrote these
things (ὁ γράψας ταῦτα)". Even if we knew nothing else about the beloved
disciple, this text says that he is one person and that he wrote: the third
singular is used. He could be one of the "many" that Luke 1:1 speaks about, but
he couldn't be all of them.

Of course, you can deny that the picture of John 21 is accurate. But, if
so, why should Luke 1:1 be more accurate? Why should the picture of Luke 1:1
provide a better understanding of John that the picture provided by John 21?
I would rather use John 21 to form a picture of John 1-20, and use Luke
1:1-4 to form a picture of Luke 1-24. At least, we are sure that John 21
speaks of the Gospel of John, while it is yet to be proved that Luke 1:1
speaks of the Fourth Gospel.

martedì 26 giugno 2007

27 domande sui Vangeli

1) La fede cristiana si fonda sui Vangeli?
"Vangelo" significa "buona notizia", e la buona notizia è che "è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore" (cf. Lc 2,10-11). La fede cristiana si fonda sulla parola viva di Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo.

2) Gesù ha scritto qualcosa? Come conosciamo il suo messaggio?
Gesù non ha scritto libri. Gesù ha scritto il suo messaggio nel cuore e nella mente di persone vive, i discepoli che ha inviato a comunicare il vangelo a tutte le genti (cf. Mt 28,19-20). Da loro abbiamo conosciuto chi era Gesù e che cosa ha insegnato. Senza la loro testimonianza non conosceremmo l'insegnamento di Gesù (cf. Rm 10,14-17).

3) Ma allora perché sono stati scritti i Vangeli?
Senza i Vangeli scritti potremmo conoscere ugualmente che cosa ha insegnato Gesù, ma non come lo insegnava. Grazie ai Vangeli, ancor oggi i cristiani possono ascoltare la sua voce. Chi ha incontrato Gesù non ne può fare a meno.

4) Perché parliamo di Vangelo "secondo" Matteo, Marco, Luca e Giovanni?
Perché così si sottolinea l'unità del messaggio: la Chiesa ha ricevuto e tramanda un unico vangelo, il vangelo di Gesù, che viene trasmesso in diverse forme. Sant'Ireneo, alla fine del II secolo, dice che il vangelo che abbiamo è "quadriforme".

5) Perché quattro Vangeli? Non ne basterebbe uno?
Gesù è una persona reale. Ciascun evangelista ne dà una conoscenza autentica, ma nessuno dice tutto su di lui (cf. Gv 21,24-25). In tal modo, ciascuno dei Vangeli ha una ricchezza propria. I cristiani non potevano rinunciarvi.

6) E i nomi degli evangelisti che cosa stanno a indicare?
Indicano che ciascun Vangelo si rifà all'uno o all'altro dei testimoni della risurrezione di Gesù. Il nome del Vangelo rispecchia il testimone di riferimento, oppure lo scrittore che ha raccolto la testimonianza e l'ha messa per iscritto.
Nel II secolo Papia di Ierapoli attribuisce a Matteo una raccolta di detti di Gesù nella lingua degli Ebrei. Tale raccolta sembra essere alla base al Vangelo in lingua greca che ci è pervenuto col nome di Matteo.
Lo stesso Papia di Ierapoli riferisce che "Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse con accuratezza, ma non secondo un ordine preciso, quanto aveva annotato delle cose dette e fatte da Cristo; egli, infatti, né aveva ascoltato [direttamente] il Signore né l'aveva seguito, ma in seguito, come ho detto, seguì Pietro che insegnava secondo le necessità, senza dare ai detti del Signore un'organizzazione complessiva".
Il Vangelo secondo Giovanni è composito. Il capitolo finale, in cui la voce narrante parla in prima persona plurale, attribuisce il resto del Vangelo al "discepolo amato" (cf. Gv 21,23-24).

7) Gli evangelisti sono perciò apostoli?
Gli evangelisti possono essere essi stessi apostoli, cioè "inviati" da Gesù stesso, oppure rifarsi alla testimonianza degli apostoli, senza esserlo personalmente (cf. Ef 4,11).
Luca è un discepolo di Paolo (cf. Flm 24). Non essendo apostolo, dichiara di essersi informato con cura dai testimoni oculari (cf. Lc 1,1-4).

8) Allora perché la Chiesa accetta soltanto i quattro Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni?
Solo quattro Vangeli sono stati riconosciuti dalla Chiesa come canonici. Oltre ad essi, nel Nuovo Testamento sono compresi altri scritti, come le lettere o come gli Atti degli Apostoli. Questi sono inseparabili dal Vangelo secondo Luca, e raccontano la prima diffusione del Vangelo nel mondo antico.

9) Quando sono stati composti i quattro Vangeli?
Nel primo secolo, in vita degli apostoli o nella generazione successiva, che ne aveva potuto ascoltare gli insegnamenti. Gli studiosi discutono sulla data specifica di ciascun Vangelo. Per l'integrità della fede è sufficiente che essi raccolgano la testimonianza degli apostoli.

10) Che cosa vuol dire "canonico"?
La parola "canone" indica in greco l'unità di misura. "Canonico" vuol dire "conforme al canone". Per i Vangeli il "canone" è la conformità alla regola della fede.

11) Che cosa sarebbe la regola della fede?
La fede non è cominciata con la scrittura dei Vangeli, ma con la risurrezione di Gesù. Dopo la Pasqua, i discepoli annunziano che Gesù, lo stesso che è morto sulla croce ed è stato sepolto, è risorto il terzo giorno ed è apparso a Pietro e agli apostoli (cf. 1 Cor 15,3-6). In questo annuncio consiste il vangelo (cf. 1 Cor 15,1-2). Ogni successivo approfondimento viene accolto soltanto se è coerente con l'annuncio pasquale.

12) Perché la fede cristiana si gioca su questo?
Perché, anziché pretendere di salvarsi da sé, il credente è pronto ad affidarsi a Gesù e a ricevere il battesimo; questo veniva amministrato dai discepoli soltanto a chi accettava la fede della Chiesa e si riconosceva in essa (cf. Mc 16,15-16).

13) Di nuovo la Chiesa. Ma la Chiesa non è arrivata dopo?
La Chiesa è venuta prima dei Vangeli: è proprio il popolo di Dio, cioè l'insieme di quanti hanno incontrato nella storia l'intervento di Dio, e hanno avuto il coraggio di riconoscere pubblicamente che la salvezza è giunta in Cristo Gesù. I credenti in Cristo sono riconoscibili, perché accolgono la testimonianza pubblica degli apostoli e credono che Gesù è risorto.

14) Perché far dipendere la salvezza dalla risurrezione di Gesù? Non è una costrizione?
Nessuna costrizione, se non quella imposta dalla coerenza. "Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede" (1 Cor 15,14). Un uomo morto in un passato sempre più lontano non può salvare chi è vivo oggi. Se Gesù non è risorto, il peccato è vincitore e i cristiani sono degli illusi (cf. 1 Cor 15,17-19).

15) E se la risurrezione di Gesù se la fossero inventata i cristiani?
Se l'hanno fatto, l'hanno fatto fin dal principio, prima che i Vangeli fossero scritti, e l'hanno fatto apertamente, pubblicamente. Ciascuno è libero di accettare o rifiutare la loro testimonianza. Ma è su questa che si misura la fede, e a questa sono conformi i quattro Vangeli canonici.

16) Non si potrebbe studiare Gesù come si studia un filosofo dell'antichità?
Si può certamente guardare a Gesù senza fede, e studiarlo senza fede, come si studia il pensiero e la vita di un uomo morto. Lo studioso leggerebbe allora i Vangeli per cercare di ricostruire un'immagine di Gesù. Ben presto vi leggerebbe: "Perché cercate fra i morti colui che è vivo?" (Lc 24,5). Dovrebbe allora riconoscere di essere estraneo alla prospettiva dei Vangeli, che è una prospettiva credente.

17) Anche Socrate è morto, ma gli uomini lo ammirano per la sua saggezza, senza bisogno di credere in lui. Non potremmo fare altrettanto con Gesù?
Se Gesù non è risorto, le sue pretese non ne farebbero un saggio filosofo, ma un megalomane. I sacerdoti di Gerusalemme lo hanno capito, e l'hanno condannato come blasfemo, per la pretesa di essere il figlio di Dio (cf. Mc 14,61-62; Mt 26,63-64; Lc 22,70).

18) Anche Socrate è stato condannato a morte per il suo insegnamento.
Vero, ma Socrate vedeva nel corpo la prigione dell'anima, e salutava la morte come liberazione. La risurrezione non gli interessava. A nessuno dei discepoli di Socrate è saltato in mente di dire che era risorto e apparso loro.

19) E i vangeli apocrifi?
I vangeli apocrifi sono scritti molto diversi fra loro. In comune hanno la caratteristica di essere "apocrifi", parola greca che significa "nascosti". Il loro contenuto non è mai stato riconosciuto conforme alla fede pubblicamente professata dal popolo di Dio.

20) Che differenze ci sono fra i vangeli apocrifi?
Alcuni sono meri racconti fittizi, che cercano di riempire gli spazi lasciati vuoti dal racconto dei Vangeli canonici, moltiplicando gli eventi straordinari. Alcuni sono irriverenti, altri sono devoti. Poco importa l'intenzione: si tratta comunque di letteratura d'invenzione, facilmente riconoscibile come tale.

21) Ci sono vangeli apocrifi meno fantasiosi?
Sì, ci sono quelli che propongono un'immagine di Gesù che contraddice quella predicata dagli apostoli e contenuta nei Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni. La maggior parte di questi scritti sono tardivi (dal III secolo in poi), alcuni sono più antichi. Così, per esempio, il cosiddetto Vangelo di Tommaso, che sembra il più antico vangelo apocrifo, giacché ne è stato trovato un manoscritto del II secolo.

22) Se è così antico, perché la Chiesa non l'ha accettato?
Non basta l'antichità perché un testo sia accettato dalla Chiesa. Occorre che sia conforme con l'annuncio pasquale e con la fede pubblicamente professata dagli apostoli. Il Vangelo di Tommaso pretende di consegnare una dottrina nascosta di Gesù, rivelata solo ad alcuni, e diversa da quella insegnata apertamente da Gesù e dagli apostoli. Si tratta di uno scritto gnostico, che in fondo non è neppure veramente un vangelo.

23) Perché il Vangelo di Tommaso non è veramente un vangelo?
Perché il vangelo è l'annuncio di un evento: Gesù ha insegnato che Dio è Padre misericordioso, ma poi ha avuto il coraggio di confermare il suo insegnamento dando la vita: inchiodato sulla croce, ha affidato al Padre l'ultimo respiro (Lc 23,46). Il terzo giorno è risorto ed è apparso agli apostoli. Il Vangelo di Tommaso non racconta nessun evento: contiene soltanto discorsi. Morte e risurrezione di Gesù non sono raccontate. Non dovrebbe sorprendere che i cristiani che si riconoscevano nell'insegnamento pubblico degli apostoli non potessero accettare questa dottrina gnostica.

24) Che cosa sono gli scritti gnostici?
Sono testi che si attendono la salvezza dalla conoscenza (gnosis in greco). Per la salvezza non conta quello che ha fatto Gesù, né quello che fa il cristiano. Decisiva è soltanto la conoscenza della dottrina segreta.

25) In che modo la gnosi concepisce la salvezza?
L'uomo sarebbe una scintilla divina invischiata nella materia. Per salvarsi deve scoprire la propria vera natura, e liberarsi così dalla dimensione corporale.

26) Ci sono altre discrepanze fra i Vangeli canonici e quelli apocrifi?
Nei quattro Vangeli Gesù è riconosciuto come Figlio del Dio che ha creato i cieli e la terra. Ci sono vangeli apocrifi secondo i quali il mondo è creato da un dio che non è il Padre di Gesù, e che non è necessariamente buono. Ne deriva che le realtà terrene sono irredimibili.

27) Ci sono conseguenze nella condotta morale?
Sì. Se contano solo le idee e non i fatti, la condotta è indifferente. Se Dio Padre non ha creato il mondo dei corpi, ci si può salvare anche uccidendo o commettendo adulterio, purché si sia consapevoli che tali azioni sono imputabili al corpo, e non alla scintilla divina che è in noi.